giovedì 15 luglio 2010

piramidi

Dice Lao Tsè , in risposta a Celeste o dell’eresia:

Di creta si fanno i vasi ma il vuoto in essi è l’essenza del vaso.

Mura con finestre e con porte fanno la casa ma il vuoto in esse è l’essenza della casa.”

Era quasi mezzogiorno in una giornata assolata, tersa ma fresca, come sono quelle primaverili vicino all’oceano atlantico. Sono passati poco più di dieci anni da quando, con un gruppo di amici, ero in viaggio verso il Portogallo e decidemmo di deviare verso il centro di Bilbao per vedere il cantiere che, di lì a pochi mesi, avrebbe consegnato al mondo un nuovo museo di cui già in molti parlavano. Eravamo in due architetti a trascinare gli altri del gruppo in deviazioni decisamente improbabili; infatti poche ore prima avevamo puntato verso la spiaggia di San Sebastian per vedere il luogo dove sapevamo si trovava il cantiere di quello che, in alcuni anni, sarebbe diventato un degli edifici più emozionanti di Spagna: il Kursaal di Rafael Moneo. Peccato che in quel momento ci fossero solamente molte ruspe e un grande scavo vuoto! Quando proponemmo di passare per il centro di Bilbao per vedere un altro cantiere dovemmo affrontare qualche resistenza…

Parcheggiammo oltre il ponte sul fiume Nervión da dove già si intravedevano le curve di titanio luccicante del nuovo museo Guggenheim Bilbao progettato da Frank Ghery. Percorremmo il ponte che, in un punto è letteralmente avvolto dal nuovo edifcio e ci fermammo dove si poteva godere della vista migliore.

Ci fu forse più di un minuto di silenzio: non sapevamo cosa pensare di quella cosa che era diversa da tutto quello che avevamo mai visto, da quello che avevamo studiato o anche solo immaginato.

Poi il mio amico disse: “ Bè, adesso abbiamo anche noi le nostre piramidi!”

Ecco! Quello era il modo giusto di pensare ad un simile oggetto e, ancora adesso, c’è tutto un genere di edifici che mi lascia senza parole, sulla quale è difficile dare un giudizio perché sfugge alle regole disciplinari dell’architettura, e che associo all’idea delle piramidi, che, indifferenti, guardano dall’alto il deserto che le circonda.

Proverò ad approfondire la questione per chiarirmi le idee.

Mi sembra che quello che racconta Alessandro Baricco nel suo recente saggio intitolato “I barbari” sia utile per capire un edificio come quello di Ghery. Baricco prova a spiegare la sensazione diffusa che in molte manifestazioni della società contemporanea si sia creato un distacco col passato tale che molti di noi restano, appunto, a bocca aperta senza essere in grado di dare un senso o una spiegazione a molti episodi della vita quotidiana, proprio come accadde a me guardando il cantiere di Bilbao. Lui utilizza esempi molto divertenti come il vino (il vino hollywoodiano che ha soppiantato le complicate bottiglie da meditazione) o il calcio (se il più forte giocatore del modo, che era Baggio, era tenuto in panchina per il bene della squadra, allora il mondo sta veramente andando a catafascio!).

Penso che si possa fare qualche cosa di simile attraverso l’architettura e il nostro museo di Bilbao, soprattutto se pensiamo di confrontarlo con il suo antenato, il Solomon R. Guggenheim Museum completato nel 1958 da Frank Lloyd Wright sulla 5° strada a New York.

Il rapporto stesso che si è sviluppato nel corso dell’ultimo secolo fra la famiglia, e poi la Fondazione, Guggenheim e il mondo dell’arte è lo specchio di un cambiamento strutturale della società e di quello che la cultura rappresenta per tutti noi.

Fino a quando la Fondazione Guggenheim voluta dallo zio Solomon nel 1937 si è identificata con la nipote Peggy, l’attività principale è stata quella del mecenatismo e della promozione dell’arte verso un pubblico colto - che capiva anche il talento degli artisti più innovatori - e benestante - in grado di sborsare grosse cifre per riservarsi le tele dell’ultimo artista di successo da sistemare sul camino del loro attico a Manhattan (o accanto al terrazzo su Canal Grande come accadeva per la stessa Peggy).

Da quando, nel 1988, il vulcanico Thomas Krens ha preso la direzione della Fondazione la concretezza e l’obiettivo di attirare il maggior numero di visitatori sono diventati gli imperativi categorici. L’idea di costruire una solida identità a scala mondiale è stata portata avanti attraverso l’ingaggio degli architetti più trasgressivi sul mercato ed è così che è partito il progetto Bilbao.

Le istituzioni basche, anch’esse in cerca di costruirsi una robusta immagine culturale in grado di confrontarsi con quella spagnola - viste anche le note tensioni indipendentiste - sono entrate fra mille critiche in questa scommessa folle accollandosi gli oltre 100 milioni di dollari di costo dell’opera e soprattutto gli smisurati costi di manutenzione. L’amministrazione di Bilbao si è impegnata anche in una completa ristrutturazione urbana chiamando altre star dell’architettura come Norman Foster per la nuova metropolitana e Santiago Calatrava per il nuovo aeroporto.

Il solo fatto che siamo qui a parlarne dopo 10 anni dimostra che quella scommessa è stata vinta, ma i dati di bilancio del museo ci dicono invece che è stata stravinta: “10 milioni di visitatori, 4500 nuovi posti di lavoro, un investimento iniziale di 150 milioni di euro ammortizzati in sei anni, una capacità record di autofinanziamento dell’ordine del 65% del budget complessivo e infine, nel solo 2007, una ricchezza aggiuntiva al PIL dei Paesi Baschi di 220 milioni di euro oltre ai 30 milioni di euro di entrate supplementari per il Ministero delle Finanze.”*

La conferma della bontà dell’idea ha avuto come conseguenza un piano di sviluppo su vasta scala che prevede nuove sedi in tutto il mondo, alcune in fase di completamento, altre in avanzata fase di progetto (Guadalajara, Bucarest, Abu Dhabi, Vilnius; oltre alle sedi funzionanti di Berlino e quella storica di Venezia che però si trovano in edifici d’epoca).

La prova che il ritorno d’immagine ed economico di queste strutture sia alla base della loro esistenza è data dalla breve vita della sede di Las Vegas, chiusa quest’anno fra lo stupore generale perché poco redditizia.

Il pubblico d’élite a cui era dedicato il museo di New York permise a Wright di fare considerazioni di diverso tipo.

Il Solomon R. Guggenheim Museum ha molti punti in comune con il grande tulipano di Ghery: ancora più di quello vuole negarsi alla città: Wright odiava le città e più di tutte New York e fu uno sforzo convincerlo a realizzare un progetto in quel luogo. Come quello di Bilbao è un’eccellente macchina espositiva adatta a concentrare l’attenzione sulle opere esposte. Però, più di quell’altro, ha un valore: dà ordine allo spazio. Mi spiego meglio: Wright progetta un percorso – la famosa spirale discendente che genera una passeggiata dove, ancora oggi è facile immaginare le giovani signore newyorkesi negli anni ’60 che spettegolavano sugli artisti ostentando i loro cappellini – e una piazza – il grande atrio coperto dal lucernario dove ci si ferma per discutere di quello che si è visto e per fare nuove conoscenze. La forma che ne scaturisce è un colpo di genio, frutto di 15 anni di ripensamenti, ma non è che la conseguenza di un ragionamento sensato.

Ghery mette insieme degli spazi che assolvono delle funzioni e poi costruisce loro intorno un’enorme decorazione che fa perdere la misura dello spazio (ricordate l’uomo di Vitruvio?).

In breve: a New York potete vedere una sapiente architettura - pensata per ospitare una comunità di persone - che può essere vissuta quotidianamente con soddisfazione da pubblico e artisti, mentre a Bilbao trovate il gesto creativo di un geniale scultore che necessita di tre squadre di manutenzione (45 persone * ), ogni santo giorno, per poter esibire la sua immagine luccicante di vetro e titanio.

Progettare per gli altri o per sé stessi?

Collettività o individualismo?

I tempi sono cambiati e, come spiega Baricco, una calata di barbari (che poi siamo tutti noi) ha portato un nuovo modo di pensare alle cose del mondo. Però, quando sono tornato a Bilbao pochi anni fa, non riuscivo a togliermi dalla mente che le piramidi non sono che tombe.

* Ila Bêka, Louise Lemoine, Gehry’s vertigo, in Abitare, n° 09/2008

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