martedì 21 dicembre 2010

come diventare buoni

...
- Non credo che questa conversazione sia molto utile.
- Hai mai pensato ad una simile eventualità?
- Certo che no.
- Bene. E adesso pensi di farlo?
- No.
- Perché?
- Perché voglio cambiare il modo di pensare della gente. E non posso cambiare il modo di pensare della gente se la penso come tutti gli altri, o sbaglio? Altrimenti che senso avrebbe?
...

Nick Hornby

domenica 28 novembre 2010

I like the way you move

          Sono uscito questa mattina, non credevo ai miei occhi,
          cento miliardi di bottiglie arenate sulla spiaggia. 
          The police, message in a bottle

Se avete un cellulare acceso in tasca dovete convivere con l'idea che qualcuno, da qualche parte, sa dove siete.
Ovviamente costui deve aver voglia di sapere dove siete (ad esempio il mossad non dovrebbe essere interessato alla mia posizione...) e deve avere accesso ai dati del vostro operatore telefonico da cui si vedrà a quale antenna della rete cellulare voi siete collegati.
Però mettiamo che a voi non interessi particolarmente nascondere i vostri spostamenti o che, al contrario, vogliate far sapere a qualcuno dove vi trovate in quel momento: allora si aprono degli scenari culturalmente esplosivi che potrebbero cambiare il nostro modo di utilizzare lo spazio.
Ad esempio Google approfitta di tutti quelli che danno il consenso a far conoscere la loro posizione per determinare a che velocità si stanno muovendo gli automezzi sulle strade e quindi a trasmettere al mondo il servizio “traffico col quale possiamo conoscere le condizioni delle strade in tempo reale e scegliere il nostro percorso di conseguenza. In Italia questo servizio funziona solo per le autostrade ma in USA, Francia e Cina è attivo anche nelle grandi città e permette letteralmente di svicolare gli ingorghi vedendoli dall'alto.
Sempre Google, tramite latitude attivo sul telefono cellulare, permette di far sapere, a chi scegliamo noi o a tutto il mondo, dove ci troviamo esattamente. Anche facebook permette di condividere con gli amici la nostra posizione, ma il programma che potrebbe cambiare tutto si chiama foursquare: chi lo accende sul proprio telefono ritiene inutile anche il minimo concetto di privacy e si muove in uno spazio parallelo di comunicazione collettiva in cui il comando “mi piace”, tanto amato dagli utenti di facebook, viene appiccicato ai luoghi. Muovendosi con foursquare in funzione si vedono i luoghi vicini a noi segnalati e commentati dagli altri utenti e si vedono i punti di aggregazione, in cui c'è più gente e anche chi c'è e chi non c'è, ma soprattutto si può segnalare al mondo un luogo che si ritiene speciale e spiegare il perché. I locali o i negozi o i musei possono diventare coordinatori di questo movimento e premiare chi li frequenta di più (ad esempio consumazione gratuita per il primo iscritto della serata...), ed il tutto può diventare un grande gioco di società premiando coloro che diventano i maggiori frequentatori con il titolo di sindaco di quel luogo.

Che cosa hanno in comune questi strampalati strumenti di comunicazione se non permettere alle persone di far sapere a tutti quanti i fatti proprii? Quante volte succede di parlare con chi non vi permette neanche di interromperlo per l'ansia di raccontare la parte di sé che vuole che tutto il mondo conosca? Il problema sembra essere, piuttosto, trovare qualcuno che resti in ascolto. La privacy è quindi un gingillo per avvocati? Un problema legato a questioni commerciali? Infatti i 500 milioni di iscritti a facebook dimostrano che i rapporti sociali sono fondati esattamente sull'opposto della privacy, vale a dire sull'esibizione.
Una delle scene chiave di social network, il film nelle sale in questi giorni che racconta la turbolenta nascita di facebook, è quella in cui uno studente chiede al protagonista informazioni confidenziali su un ragazza: Zuckerberg risponde che non ne sa nulla e che la gente dovrebbe andare in giro con un cartello con su scritto se è sentimentalmente libera e le sue intenzioni. Facebook è questo cartello, un messaggio in bottiglia che vaga nella rete. Foursquare è invece un cartello piantato in mezzo alla strada che cambia le gerarchie spaziali utilizzando il sapere collettivo.

Questa idea di amicizia di massa incuriosisce molto chi deve progettare lo spazio fisico perché, se il progetto architettonico deve essere un gesto culturale diventa importante capire se la società si muove verso un futuro individualista e pieno di paure per la diversità, che trova la sua unica panacea nello shopping come vorrebbero convincerci la televisione e la pubblicità, oppure se si sarà in grado di utilizzare internet come strumento per realizzare una comunicazione di massa autogestita invece che filtrata.
A quanto pare il mondo virtuale di chi viaggia nella rete, a dispetto dei timori di scollamento dalla realtà, sembra possa tornare utile per la riappropriazione corale dello spazio fisico.
In Italia si stanno guadagnando una nota di merito in tal senso i ragazzi di critical city che hanno inventato un gioco contagioso in cui bisogna guadagnarsi dei punti girando per la propria città, ma anche restando a casa propria, superando delle prove sia individuali che collettive. Una specie di caccia al tesoro il cui risultato è una mappa divertita di luoghi abbandonati da riscoprire e di luoghi conosciuti caricati di nuovi significati.
Mentre c'è che costruisce muri (come quello che si è iniziato a realizzare pochi giorni fa al confine tra Israele ed Egitto), altri costruiscono ponti virtuali che finiscono con l'essere più utili dei ponti fatti di cemento e acciaio.


i like the way you move

lunedì 1 novembre 2010

forte a venezia

let's come together
right now
oh yeh
in sweet harmony

DSC00082

Alcuni anni fa ho assistito ad una conferenza dell'architetto svizzero Jacques Herzog, che insieme al suo socio Pierre de Meuron conduce uno studio che si trova senza dubbio nella top 10 fra i più venerati e pubblicati al mondo.
Davanti ad una domanda molto nervosa di uno studente italiano sullo scarso impegno sociale che il suo studio sembrava dimostrare, Herzog, un po' sorpreso, rispose all'incirca: “Noi facciamo politica facendo il nostro mestiere. Ogni nostro progetto è un gesto fortemente politico che intende migliorare il mondo!”.

La nuvola di insensatezze che ci gira intorno e che, quasi senza che noi ce ne accorgiamo, diventa fondativa di comportamenti sociali autoreferenziali, inutili o anche dannosi, può far dimenticare che sarebbe sufficiente che ognuno di noi, secondo le proprie competenze, facesse il suo mestiere in modo corretto, ricordando che ogni gesto ha una ricaduta immediata ma anche una a lungo termine, per poter realisticamente immaginare una società paradisiaca, alla mulino bianco...

Partendo sicuramente da questa idea, una minuta signora giapponese dal fascino strabordante, ha deciso di intitolare la 12° Biennale di architettura che si chiuderà il 21 novembre a Venezia: people meet in architecture (la gente si incontra nell'architettura).

Kazuyo Sejima pochi giorni dopo essere stata incaricata della direzione dell'edizione 2010 della mostra veneziana, ha anche vinto, insieme al suo collega nello studio SANAA, Ryue Nishizawa, il premio Pritzker, che è il maggior riconoscimento al quale un architetto possa ambire, ma del quale non aveva più di tanto bisogno per essere inclusa nella top 10 di cui si parlava prima.

Passeggiando per gli affascinanti edifici dell'Arsenale e dei Giardini non sembra però che la maggioranza degli architetti invitati abbiano raccolto l'intento civile e poetico implicito nel titolo. Molti progetti e installazioni presenti, pur se interessanti e a volte sorprendenti, finiscono col perdere il filo del discorso.
Fra gli esempi che invece dimostrano le possibilità dell'architettura come strumento di accumulazione culturale si riconoscono due progetti:

- il primo è (ovviamente?) proprio dello studio SANAA ed è il Rolex Learning Center del Politecnico di Losanna. 

 
Questo maestoso edificio che appare come una morbida coperta bianca che protegge studenti, congressisti e visitatori che vi sono ospitati, è presentato in tutta la sua spettacolarità, immediatamente dopo l'ingresso della mostra, con un travolgente video tridimensionale che ne illustra la complessità degli spazi e la capacità di attrarre dentro di sé e fare incontrare funzioni che normalmente resterebbero separate.

- per vedere il secondo edificio invece bisogna camminare molto: si trova nell'angolo più lontano del padiglione italiano che, a sua volta, è il più lontano nel complesso dell'Arsenale. Una ventina di minuti a piedi fra bacini d'acqua e darsene dismesse per poi attraversare la grande sala che raccoglie i progetti italiani selezionati da Luca Molinari e scoprire, in un angolo, le immagini di un piccolo edificio bianco (64 metri quadrati in tutto) progettato da TAMassociati di Venezia per Emergency. 

E' il padiglione di meditazione e preghiera costruito per i parenti dei malati dell'ospedale cardiochirurgico Salam di Khartoum. L'edificio, formato da due sale cubiche, appare sospeso su una vasca d'acqua che arriva dal Nilo, che scorre a poche centinaia di metri. I progettisti lo descrivono così:

Il Sudan è un paese che nel corso degli ultimi vent’anni è stato flagellato da numerose guerre inter-etniche ma soprattutto inter-religiose. Quando ci siamo trovati a dover pensare ad un luogo che ospitasse la preghiera, com’è consuetudine avvenga in qualunque luogo di cura, ci siamo dovuti confrontare con questo difficile dilemma: pensare uno spazio che potesse ospitare la complessità spirituale che alberga in questo paese. La scelta è stata quella di non privilegiare alcuna forma di culto ma di creare uno spazio capace di ospitare la preghiera e meditazione di tutte le fedi. Abbiamo dovuto, ovviamente, confrontarci con la religione mussulmana che è la fede professata dalla maggioranza dei Sudanesi e con le regole imposte da questo culto (le abluzioni, la separazione uomini donne) ma abbiamo calato queste regole in un contesto neutro che non le rendesse dominanti. La cosa è stata possibile occultando tutti i simboli e gli elementi religiosi che potessero essere ricondotti ad un’unica religione.

Uff...
Così tante possibilità di incontrarsi e così poche architetture in cui farlo!

sabato 16 ottobre 2010

milano

Gio Ponti
CHIESA DI SAN FRANCESCO (1964)
via Paolo Giovio, 31
Milano

venerdì 15 ottobre 2010

fatevi i geotags vostri!

Sempre più persone dimostrano ogni giorno la volontà di mostrare i fatti loro mettendo in rete ogni possibile informazione sensibile. Questa è una pacchia per chi, sul commercio di quei dati, ci guadagna ma la rete sembra essere, per ora, così libera da restituire le informazioni rielaborate in modo che tutti possano trarne vantaggio.
Ad esempio il servizio traffico di google maps, che semplifica con strisce verdi, gialle e rosse la velocità delle vetture sulle strade, funziona grazie al monitoraggio della posizione dei cellulari che lasciano attiva la funzione my location.
Un esempio spettacolare sono le mappe dei geotag di flickr e picasa elaborate da Eric Fischer.
Utilizzando i dati di persone che condividono in rete il loro luogo di residenza e le loro fotografie, lasciando sapere dove sono state scattate, Fischer ha prodotto queste mappe delle principali città del mondo mostrando dove fanno fotografie i turisti (in rosso) e dove invece scattano i residenti (in blu).
Volete evitare i turisti e trovare i luoghi caratteristici di una città? Oppure dovete aprire un negozio proprio dove sostano gli autobus carichi di giapponesi?
Vi stanno antipatici i milanesi? Evitate corso Garibaldi: pare che siano tutti lì a farsi fotografie l'uno con l'altro!


ringrazio MaxVIII per la segnalazione

giovedì 30 settembre 2010

scalfitture

“Sto imparando a volare, ma non ho ali
tornare a terra è la cosa più difficile.”


learning to fly, Tom Petty & the heartbreakers



Se noi decidessimo di fare dei sacrifici economici ed acquistare una delle poche e costose automobili elettriche che si trovano in vendita oggi, spinti da un irrefrenabile istinto ecologista, potremmo poi rimanere piuttosto delusi dallo studio recentemente pubblicato dall'EMPA (il Centro Ricerche sulla Scienza dei Materiali e lo Sviluppo Tecnologico del Politecnico di Zurigo).
Qui scopriremmo che, benché l'impatto ambientale della produzione e smaltimento delle batterie per l'accumulo di elettricità del nostro nuovo gioiellino sia assai più basso di quanto si pensava, in realtà potremmo, alla fine produrre più anidride carbonica e sostanze dannose di un normale motore diesel che ci sarebbe costato la metà!!
L'inghippo è semplice: noi non abbiamo il controllo sulla produzione dell'energia che consumiamo, che per la stragrande maggioranza è derivata dal petrolio. Quindi se l'elettricità che muove la nostra luccicante vetturetta arriva, invece che da una centrale idroelettrica, da una centrale a carbone o da una centrale nucleare di vecchia generazione (e con vecchia intendo anche quelle che si pensa di costruire in Italia nei prossimi anni) avremo, rispettivamente, un poderoso rilascio immediato di sostanze inquinanti o scorie radioattive da nascondere sotto il tappeto per alcuni secoli...
Certamente le cosiddette fonti alternative (eolico, solare, geotermico) non sono al momento in grado di soddisfare la domanda energetica, però questo non toglie che continuare ad investire in tecnologie che, non solo non hanno un futuro, ma perpetuano una condizione dannosa per gli esseri umani è quantomeno poco lungimirante (stupido?). anche se, in effetti, molto remunerativo per pochi....


I media collegano l'inquinamento da petrolio con il maggiore o minore uso delle automobili o con la scelta del combustibile per il riscaldamento della propria casa.
In realtà si consuma troppo petrolio quando si decide di usare un aereo invece che un treno, e questo è abbastanza evidente (per portare un singolo passeggero da milano a New York vengono prodotte circa 4 tonnellate di CO2 che è, più o meno, quello che emette la mia automobile in un anno); quando si lascia aperto il rubinetto dell'acqua mentre ci si lavano i denti (circa 30 litri che se ne vanno insieme a tutta l'energia che è servita ad estrarli, pomparli fino al lavandino e che servirà per smaltirli o, nel migliore dei casi, a depurarli); quando si compra l'insalata che è stata trasportata con un autocarro da 1000 km di distanza invece di comprarla dal proprio vicino; quando si compra la bresaola della valtellina o il culatello di zibello nella comoda vaschetta di plastica che è fatta con il petrolio; ecc.


Guardandosi in giro si riescono ad individuare due tecniche per riprendere il controllo sulla produzione dell'energia di cui abbiamo bisogno ogni giorno: le chiamerò hacking e diaspora.
Se cerco la traduzione di hacking, il termine che mi piace di più è intaccare, e per illustrarlo non trovo niente di meglio di un taglio di Lucio Fontana. Se si va a vedere il programma del meeting meno omologato di tutti che si è svolto a Roma nello scorso luglio, l'hackIT, si capisce che non è al solo mondo di internet e dell'elettronica che si dedicano gli hacker: i seminari vanno da “autocostruzione di pale eoliche” a “orti in città” passando per la crittografia quantistica (?!?)... La tecnica non è quella di arrestare lo sviluppo tecnologico (“... perché semplicemente non si può”) ma di intaccare il guscio che ci esilia dalle cose del mondo per renderci tutti attori consapevoli della sua evoluzione.
Diaspora ha un senso molto meno biblico di quanto sembri e indica un sito internet che, nato da pochi giorni, intende raccogliere tutti quelli che si sono resi conto del grande inganno operato dai gestori della più grande comunità di amici al mondo, facebook, che ha cambiato unilateralmente le regole sulla privacy, rendendo irreversibile, e più difficile da controllare, tutto il processo di donazione volontaria di preziosi dati personali che ogni generoso iscritto fa ogni giorno. In questo caso la tecnica consiste nell'autoesiliarsi da una condizione divenuta insostenibile e lasciare che la massa continui per la sua strada.


Entrambi questi atteggiamenti, evidentemente contraddittori, sono racchiusi in un movimento che, partito dal Regno Unito e oramai diffuso (troppo poco) in tutto il mondo, assorbe come una spugna ogni possibile soluzione per traghettare la società fuori dalla dipendenza dal petrolio.
Si chiama transition e sta diventando il punto di riferimento a scala globale per le piccole comunità (piccoli e medi comuni, o comunità di quartiere in città più grandi) che intendono progressivamente scollegarsi da un sistema energetico (e morale) che non consente il dialogo ed il miglioramento attraverso il confronto.
Le iniziative di transizione si distribuiscono fra l'hacking e la diaspora e vanno dalla creazione di orti e mercati comunitari, alla condivisione dei mezzi di trasporto, ai corsi di riparazione per allungare la vita degli oggetti (accompagnati dalla promozione dell'acquisto all'ingrosso di oggetti progettati per durare a lungo), fino alla creazione di una vera e propria economia locale parallela che si emancipa da quella fittizia e speculativa delle borse globali (illuminante la formula degli šcec per favorire i produttori e commercianti locali nei confronti della grande distribuzione).
Le città di transizione italiane sono ormai una quindicina (compresa L'Aquila per motivi evidenti) ma l'aspetto più importante è il consolidamento della rete informativa che le unisce a quelle del resto del mondo (compreso Giappone, Nuova Zelanda e Sudafrica).


PS: lo so che non si può andare a New York in treno...
...
...
per ora.

venerdì 3 settembre 2010

3 età - 3/2007 - piramidi

3 età - 2/2007 - ordine e costruzione

bilbao

london

helsinki

barcelona

valencia

tallin

amsterdam

amsterdam

2017 amsterdam

sabato 7 agosto 2010

spazio: ultima frontiera

LIBERO ARBITRIO!! LIBERO ARBITRIO!!”
Kilgore Trout


Se ci si muove dall'Italia verso nord, senza utilizzare come unico strumento di percezione la guida turistica o il navigatore satellitare ma, ad esempio, la vista, accompagnata da un minimo di circospezione, si notano molto sovente incroci e spazi pubblici senza segnaletica stradale, né verticale (cartelli, semafori) né orizzontale (linee di mezzeria, o limiti di stop...). Questo sistema viene utilizzato normalmente in aree urbane a scarso traffico per tenere alta l'attenzione dei guidatori.
Però ci sono una dozzina di cittadine di medie o grandi dimensioni in Nord Europa, soprattutto in Olanda e Germania, in cui si sta portando avanti un esperimento ai confini della realtà: progressivamente in tutto il centro abitato - quindi anche incroci ad alta densità di traffico - sono stati eliminati i segnali stradali e i semafori. Via! spariti! puff..... un incantesimo ben fatto e decine, centinaia di pezzi di ferro sono scomparsi dalla vista dei passanti.

Questo è solo l'aspetto più evidente di un progetto supportato dalla UE chiamato shared spaces in cui si vuole ristudiare il rapporto fra cittadini e mobilità, sulla base della constatazione che i guidatori prestano più attenzione a ciò che succede intorno a loro quando non possono contare su rigide regole del traffico che abbattono la loro percezione del pericolo. Pare che laggiù al nord i cittadini, all'avvicinarsi degli incroci (dove ovviamente il codice della strada è ancora e sempre in vigore) vengano sopraffatti da un rigurgito di senso civico e rallentino esageratamente, non si sa se per timore o (come non vorrebbero gli psicanalisti) per il superamento dell'inclinazione primordiale alla prepotenza.
Lo scopo finale è quello di restituire all'uso collettivo una spropositata porzione di spazio che normalmente è utilizzata esclusivamente dai veicoli.
Al momento gli interventi si stanno moltiplicando anche nelle grandi città, soprattutto inglesi, ma nella cittadina di Drachten, in Olanda, dove per la prima volta nel 2000 si è realizzato questo esperimento, gli incidenti stradali si sono ridotti a zero (ZERO virgola ZERO!?!).

Questo aspetto, pur essendo probabilmente il più importante, non è quello che tormenta di più il mio blando senso etico.
Shared spaces, con i suoi marciapiedi infiniti, le panche in centro alle rotonde, le differenti pavimentazioni che voglio far capire al guidatore di essere in una strada che sarebbe preferibilmente riservata ai pedoni, lascia senza parole perché mira a far passare l'intera comunità ad un grado superiore di civiltà: riconoscendo che i veicoli (sia automobili che biciclette) NON sono più importanti dei pedoni si tenta di abrogare la legge del più forte e di conseguenza dimostrare che è possibile convivere utilizzando il buonsenso invece dell'istinto bestiale. E' un po' come cerca di spiegarci Arthur C. Clarke in 2001 odissea nello spazio quando fa calare il monolite di metallo lucido in mezzo agli scimmioni: uno spazio urbano ben fatto può far scattare il dubbio dell'intelligenza anche in chi va a far la spesa con un SUV da 400 CV.

Il progetto, visto anche il suo carattere un po' borderline, non prevede solo l'eliminazione della segnaletica ma consiste in un ridisegno molto raffinato e poco vistoso delle strade e degli incroci e gli esperimenti finora realizzati stanno funzionando grazie alla capacità dei progettisti.
Bisogna riconoscere però che alla base della buona riuscita c'è una politica di disincentivazione dell'uso dell'automobile all'interno dei centri urbani, per la quale, come ama sostenere Beppe Grillo, l'Italia è ancora una volta in "lievissima controtendenza".
Mente in tutto il mondo si lavora per sviluppare i mezzi di trasporto collettivi che disincentivino l'uso e la proprietà dell'automobile, in Italia, non solo si costruiscono quantità di parcheggi nei centri urbani (se un'automobile arriva in centro deve poi andarsene e quindi crea ingorghi in un senso e nell'altro), ma, con trovate tipo ecopass o autovelox, si fa dipendere l'economia dei comuni dall'abbondante transito delle auto...

Il feroce scrittore Kurt Vonnegut, nel suo romanzo cronosisma, racconta di una società nella quale l'universo ha una crisi di autostima e decide di interrompere la sua espansione e tornare indietro di dieci anni. Tutti si trovano a rifare le stesse cose che avevano già fatto e a riprendere le stesse decisioni senza possibilità di uscire da uno schema già vissuto. Quando si ritorna all'esatto istante da cui si era partiti nessuno pare più in grado di usare la propria intelligenza e affrontare i normali eventi della vita: così gli autobus finiscono fuori strada e le persone si scontrano sui marciapiedi. Per fortuna c'è qualcuno come il protagonista Kilgore Trout che si sbraccia correndo per le strade e ripetendo a tutti: LIBERO ARBITRIO!! LIBERO ARBITRIO!!!

mercoledì 28 luglio 2010

sabato 24 luglio 2010

forma e sostanza

..comodo ma, come dire, poca soddisfazione..
C.S.I.

Volete provare un'esperienza di straordinario design? Fate un giro per la vostra casa a verificare se l'interruttore che vedete nell'immagine qui accanto è montato sul cavo di una vostra lampada. Se, stranamente (è stato finora prodotto in oltre 25 milioni di esemplari) non è così potete fare come me: andate a comprarlo nel negozio sotto casa - costa 3 euro - e lo montate in 10 minuti sul cavo della vostra lampada da comodino. Poi accendete.

Clic.

Ora potete intuire perché il più famoso designer italiano, Achille Castiglioni che lo progettò nel 1968 insieme al fratello Pier Giacomo, lo riteneva il suo oggetto preferito: l'invenzione di quello scatto rassicurante, copiato da allora un'infinità di volte, lo inorgogliva e allo stesso tempo segnava il tempo della sua giornata.

Clic.

Personaggi vulcanici e geniali come Castiglioni, scomparso nel 2002, sono quelli che hanno costruito la fama del progetto industriale (per gli amici industrial design) in Italia e la fortuna economica di un settore che ancora oggi pone l'inventiva italiana all'avanguardia del mercato.
L'evento più importante al mondo legato al mercato del design è il Salone del Mobile di Milano che si svolge tutti gli anni verso la metà di aprile.
Se non siete un calciatore o una modella Milano non è una città molto divertente, ma nella settimana del salone tutto cambia: per gemmazione spontanea il Salone ha prodotto il fuorisalone che non è altro che la duplicazione dei padiglioni fieristici in giro per la città. E in giro vuol dire veramente ovunque: piazze, abitazioni, magazzini, fabbriche abbandonate o funzionanti, cantine oltre a più convenzionali showroom, musei e gallerie d'arte diventano oggetto di allestimenti spettacolari, performance mirabolanti e buffet continui ad ogni ora del giorno… I compratori, con amici, parenti, semplici curiosi e animali da compagnia arrivano da tutto il mondo ingorgando la città dal mercoledì al lunedì successivo. Per chi lavora nel settore, o cerca di entrarci, è necessario esporre: se non ci sei non esisti.
Una grande festa collettiva insomma; ma il design? Molto spesso è diluito all'interno del grande entusiasmo generale, qualche volta non c'è, molto spesso sembra una scusa per creare un'atmosfera o forse è più vero il contrario: l'atmosfera da rivista patinata che avvolge l'evento sembra essere quella che dà il senso agli oggetti. Come nella pubblicità il valore dell'oggetto viene scavalcato dall'incanto dell'evento che deve attirare più pubblico possibile.

Clic.

Quest'anno però il Salone milanese deve coesistere con l'attribuzione a Torino di capitale mondiale del Design.
L'approccio al tema è diverso, dal momento che si tratta di un evento meno sfacciatamente commerciale, ed il contesto più cultural/turistico ha favorito la produzione di alcune mostre che ci possono aiutare a capire le origini del design come lo vediamo oggi.
Segnalo due iniziative.
"L'oro del design italiano" (alle scuderie della reggia di Venaria fino al 9 luglio) espone gli oggetti che hanno fatto la storia del compasso d'oro, il premio che dal 1954 viene assegnato ogni anno dall'Associazione Designer Italiani. Gli oggetti, i vincitori ma anche l'elenco dei membri delle giurie raccontano una storia di duro lavoro, ricerca sui materiali, collaborazione fra progettisti e aziende, il tutto controllato da una consapevolezza del significato di ogni gesto progettuale programmaticamente epurato da eccentricità o protagonismi. A Palazzo Madama, fino al 6 luglio, sono esposte la vita e le opere di "Roberto Sambonet designer grafico artista. 1924/1995", uno che, con la sua famiglia, ha costruito la storia dell'industria vercellese. Sambonet è un personaggio che, a conoscerne la vita, fa venire voglia di fare molto meglio il proprio mestiere, tanta è la passione e la ricerca che metteva in ogni sua impresa e tanto semplici ma accurati risultavano i suoi oggetti di design: si tratta di uno degli ultimi cavalieri di quel modo di lavorare che metteva al centro del progetto la qualità dell'oggetto piuttosto che le suggestioni che questo può provocare.

Clic.

Ora sappiamo dove incontrare il design contemporaneo e sappiamo dove andare per capire le sue origini; ma si può intuire come sarà il design del futuro?
Provate ad andare a vedere il sito di DOTT'07 (DeSigns Of The Time), un festival che si è svolto lo scorso anno nell'Inghilterra del nord: ai progettisti invitati da tutto il mondo non è stato richiesto di progettare oggetti ma di migliorare la qualità della vita degli abitanti del luogo riprogettando il loro modo di usare lo spazio ed il tempo: e allora ecco un sistema informativo di condivisione dei mezzi di trasporto nelle zone rurali; un kit per la realizzazione di orti urbani (per annullare l'inquinamento dovuto al trasporto delle derrate); un insieme di regole per facilitare la normale esistenza dei malati di alzheimer, e così via…
Forse gli oggetti ci stanno per sparire dalle mani? Attenzione! Dovremo iniziare ad usare la testa!

Clic.

3 età - 1/2007 - artificio e natura

3 età - 4/2007 - la luce e la pelle

venerdì 23 luglio 2010

un gioco per l'estate

Vi propongo un divertente passatempo che potrete esercitare da soli o in compagnia nei luoghi di vacanza ma anche intorno a casa vostra o magari proprio in casa vostra.

- Scopo del gioco:
distinguere una buona architettura da una cattiva architettura (l'ho messa giù un po' dura: il gioco permette di valutare uno dei fattori che fanno questa differenza, però, forse, il più significativo).

- prima regola del gioco: una buona architettura è proporzionata così come è proporzionato il corpo umano, una cattiva architettura è evidentemente squilibrata.
- cenni storici sulla prima regola:
se prendete una moneta da un euro, se questa è stata coniata in Italia, su una della facce troverete il corpo di un uomo, nudo, che, bontà sua, sembra avere quattro braccia e quattro gambe. Si tratta del celeberrimo uomo di Vitruvio disegnato da Leonardo da Vinci più o meno negli anni in cui Colombo metteva piede, per la prima volta, sulle Indie Occidentali. Quel disegno nasce dal bisogno di aggiungere delle illustrazioni ad un monumentale libro intitolato "L'architettura" scritto, molti secoli prima, da Vitruvio Pollione per ingraziarsi l'imperatore Augusto e magari per farsi dare degli incarichi per realizzare qualche sontuoso edificio. Probabilmente Augusto non restò molto impressionato, dal momento che non c'è traccia di edifici progettati dal nostro eroe in tutta Roma, però la sua immortalità nasce dal fatto che il libro avrà la sfacciata fortuna di essere l'unico testo sull'architettura classica ad essere tramandato dai trascrittori medievali per arrivare sui tavoli dei Grandi Pensatori rinascimentali che ne faranno il testo sacro di ogni architetto da allora e per i prossimi 10 000 anni almeno.
Se si vuole capire qualcosa di architettura prima si va a vedere cosa dice Vitruvio, poi, se restano ancora dei dubbi, ci si può rivolgere altrove.
Il problema è che nel corso delle trascrizioni medievali sono andate perse le illustrazioni che quasi sicuramente erano allegate al testo ed è per questo che Leonardo, così come molti altri prima e dopo di lui, decide di provare a disegnare quello che Vitruvio spiega a parole. Il disegno della moneta è relativo al terzo capitolo in cui Vitruvio spiega come la simmetria e la proporzione dei templi non possa che derivare dallo studio delle proporzioni del corpo umano e delle sue parti fra di loro.
Francesco di Giorgio Martini, 1490c

- seconda regola del gioco: le misure di una buona architettura hanno origine dalle dimensioni del corpo umano mentre una cattiva architettura si dimentica che gli esseri umani faranno sempre dei passi che sono lunghi un metro (più o meno).
- cenni storici sulla seconda regola:
Una quindicina di anni fa ho assistito ad una conferenza dell'architetto olandese Aldo van Eyck: personaggio scomodo, rompiscatole, già allora settantacinquenne e ora non più tra noi. La lezione era divisa in due parti: nella prima van Eyck, molto divertito, mostrava immagini di edifici malfatti progettati da suoi colleghi famosi. Li chiamava per nome, per non offendere nessuno diceva, e mostrava un grattacielo di Philip con la porta d'ingresso alta 30 metri (forse un po' alta per un uomo di 1 metro e 80); l'ingresso di una banca di Arata dove, di 8 porte tutte uguali, solo una si apriva veramente (!!); un condominio di Aldo (quello sbagliato diceva) in cui l'ingresso era nascosto da una grande colonna cilindrica alta quattro piani (dove forse qualcuno sta ancora adesso cercando il modo di entrare).
La seconda parte era tutta dedicata ad una sola immagine: era la porta d'ingresso di una casa di fango in un villaggio del deserto africano. Van Eyck dedicò una buona mezz'ora per elencare in quanti modi quella fosse una buona architettura: quanto fosse larga e alta il minimo per far passare una persona con un secchio d'acqua in testa e non lasciar passare il terribile sole tropicale; quanto il gradino d'ingresso fosse alto il giusto per sedersi e conversare con chi passava per strada o sedeva dall'altra parte della strada e, allo stesso tempo evitare che le rare ma intense piogge facessero entrare fango all'interno; quanto lo spessore dello stipite fosse corretto per far sì che, chi stava seduto sul gradino potesse tenere la testa al riparo dal sole; e così via..

- premi: diciamo la verità, a fare questo gioco non si vince niente. O forse sì..