domenica 28 novembre 2010

I like the way you move

          Sono uscito questa mattina, non credevo ai miei occhi,
          cento miliardi di bottiglie arenate sulla spiaggia. 
          The police, message in a bottle

Se avete un cellulare acceso in tasca dovete convivere con l'idea che qualcuno, da qualche parte, sa dove siete.
Ovviamente costui deve aver voglia di sapere dove siete (ad esempio il mossad non dovrebbe essere interessato alla mia posizione...) e deve avere accesso ai dati del vostro operatore telefonico da cui si vedrà a quale antenna della rete cellulare voi siete collegati.
Però mettiamo che a voi non interessi particolarmente nascondere i vostri spostamenti o che, al contrario, vogliate far sapere a qualcuno dove vi trovate in quel momento: allora si aprono degli scenari culturalmente esplosivi che potrebbero cambiare il nostro modo di utilizzare lo spazio.
Ad esempio Google approfitta di tutti quelli che danno il consenso a far conoscere la loro posizione per determinare a che velocità si stanno muovendo gli automezzi sulle strade e quindi a trasmettere al mondo il servizio “traffico col quale possiamo conoscere le condizioni delle strade in tempo reale e scegliere il nostro percorso di conseguenza. In Italia questo servizio funziona solo per le autostrade ma in USA, Francia e Cina è attivo anche nelle grandi città e permette letteralmente di svicolare gli ingorghi vedendoli dall'alto.
Sempre Google, tramite latitude attivo sul telefono cellulare, permette di far sapere, a chi scegliamo noi o a tutto il mondo, dove ci troviamo esattamente. Anche facebook permette di condividere con gli amici la nostra posizione, ma il programma che potrebbe cambiare tutto si chiama foursquare: chi lo accende sul proprio telefono ritiene inutile anche il minimo concetto di privacy e si muove in uno spazio parallelo di comunicazione collettiva in cui il comando “mi piace”, tanto amato dagli utenti di facebook, viene appiccicato ai luoghi. Muovendosi con foursquare in funzione si vedono i luoghi vicini a noi segnalati e commentati dagli altri utenti e si vedono i punti di aggregazione, in cui c'è più gente e anche chi c'è e chi non c'è, ma soprattutto si può segnalare al mondo un luogo che si ritiene speciale e spiegare il perché. I locali o i negozi o i musei possono diventare coordinatori di questo movimento e premiare chi li frequenta di più (ad esempio consumazione gratuita per il primo iscritto della serata...), ed il tutto può diventare un grande gioco di società premiando coloro che diventano i maggiori frequentatori con il titolo di sindaco di quel luogo.

Che cosa hanno in comune questi strampalati strumenti di comunicazione se non permettere alle persone di far sapere a tutti quanti i fatti proprii? Quante volte succede di parlare con chi non vi permette neanche di interromperlo per l'ansia di raccontare la parte di sé che vuole che tutto il mondo conosca? Il problema sembra essere, piuttosto, trovare qualcuno che resti in ascolto. La privacy è quindi un gingillo per avvocati? Un problema legato a questioni commerciali? Infatti i 500 milioni di iscritti a facebook dimostrano che i rapporti sociali sono fondati esattamente sull'opposto della privacy, vale a dire sull'esibizione.
Una delle scene chiave di social network, il film nelle sale in questi giorni che racconta la turbolenta nascita di facebook, è quella in cui uno studente chiede al protagonista informazioni confidenziali su un ragazza: Zuckerberg risponde che non ne sa nulla e che la gente dovrebbe andare in giro con un cartello con su scritto se è sentimentalmente libera e le sue intenzioni. Facebook è questo cartello, un messaggio in bottiglia che vaga nella rete. Foursquare è invece un cartello piantato in mezzo alla strada che cambia le gerarchie spaziali utilizzando il sapere collettivo.

Questa idea di amicizia di massa incuriosisce molto chi deve progettare lo spazio fisico perché, se il progetto architettonico deve essere un gesto culturale diventa importante capire se la società si muove verso un futuro individualista e pieno di paure per la diversità, che trova la sua unica panacea nello shopping come vorrebbero convincerci la televisione e la pubblicità, oppure se si sarà in grado di utilizzare internet come strumento per realizzare una comunicazione di massa autogestita invece che filtrata.
A quanto pare il mondo virtuale di chi viaggia nella rete, a dispetto dei timori di scollamento dalla realtà, sembra possa tornare utile per la riappropriazione corale dello spazio fisico.
In Italia si stanno guadagnando una nota di merito in tal senso i ragazzi di critical city che hanno inventato un gioco contagioso in cui bisogna guadagnarsi dei punti girando per la propria città, ma anche restando a casa propria, superando delle prove sia individuali che collettive. Una specie di caccia al tesoro il cui risultato è una mappa divertita di luoghi abbandonati da riscoprire e di luoghi conosciuti caricati di nuovi significati.
Mentre c'è che costruisce muri (come quello che si è iniziato a realizzare pochi giorni fa al confine tra Israele ed Egitto), altri costruiscono ponti virtuali che finiscono con l'essere più utili dei ponti fatti di cemento e acciaio.


i like the way you move

lunedì 1 novembre 2010

forte a venezia

let's come together
right now
oh yeh
in sweet harmony

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Alcuni anni fa ho assistito ad una conferenza dell'architetto svizzero Jacques Herzog, che insieme al suo socio Pierre de Meuron conduce uno studio che si trova senza dubbio nella top 10 fra i più venerati e pubblicati al mondo.
Davanti ad una domanda molto nervosa di uno studente italiano sullo scarso impegno sociale che il suo studio sembrava dimostrare, Herzog, un po' sorpreso, rispose all'incirca: “Noi facciamo politica facendo il nostro mestiere. Ogni nostro progetto è un gesto fortemente politico che intende migliorare il mondo!”.

La nuvola di insensatezze che ci gira intorno e che, quasi senza che noi ce ne accorgiamo, diventa fondativa di comportamenti sociali autoreferenziali, inutili o anche dannosi, può far dimenticare che sarebbe sufficiente che ognuno di noi, secondo le proprie competenze, facesse il suo mestiere in modo corretto, ricordando che ogni gesto ha una ricaduta immediata ma anche una a lungo termine, per poter realisticamente immaginare una società paradisiaca, alla mulino bianco...

Partendo sicuramente da questa idea, una minuta signora giapponese dal fascino strabordante, ha deciso di intitolare la 12° Biennale di architettura che si chiuderà il 21 novembre a Venezia: people meet in architecture (la gente si incontra nell'architettura).

Kazuyo Sejima pochi giorni dopo essere stata incaricata della direzione dell'edizione 2010 della mostra veneziana, ha anche vinto, insieme al suo collega nello studio SANAA, Ryue Nishizawa, il premio Pritzker, che è il maggior riconoscimento al quale un architetto possa ambire, ma del quale non aveva più di tanto bisogno per essere inclusa nella top 10 di cui si parlava prima.

Passeggiando per gli affascinanti edifici dell'Arsenale e dei Giardini non sembra però che la maggioranza degli architetti invitati abbiano raccolto l'intento civile e poetico implicito nel titolo. Molti progetti e installazioni presenti, pur se interessanti e a volte sorprendenti, finiscono col perdere il filo del discorso.
Fra gli esempi che invece dimostrano le possibilità dell'architettura come strumento di accumulazione culturale si riconoscono due progetti:

- il primo è (ovviamente?) proprio dello studio SANAA ed è il Rolex Learning Center del Politecnico di Losanna. 

 
Questo maestoso edificio che appare come una morbida coperta bianca che protegge studenti, congressisti e visitatori che vi sono ospitati, è presentato in tutta la sua spettacolarità, immediatamente dopo l'ingresso della mostra, con un travolgente video tridimensionale che ne illustra la complessità degli spazi e la capacità di attrarre dentro di sé e fare incontrare funzioni che normalmente resterebbero separate.

- per vedere il secondo edificio invece bisogna camminare molto: si trova nell'angolo più lontano del padiglione italiano che, a sua volta, è il più lontano nel complesso dell'Arsenale. Una ventina di minuti a piedi fra bacini d'acqua e darsene dismesse per poi attraversare la grande sala che raccoglie i progetti italiani selezionati da Luca Molinari e scoprire, in un angolo, le immagini di un piccolo edificio bianco (64 metri quadrati in tutto) progettato da TAMassociati di Venezia per Emergency. 

E' il padiglione di meditazione e preghiera costruito per i parenti dei malati dell'ospedale cardiochirurgico Salam di Khartoum. L'edificio, formato da due sale cubiche, appare sospeso su una vasca d'acqua che arriva dal Nilo, che scorre a poche centinaia di metri. I progettisti lo descrivono così:

Il Sudan è un paese che nel corso degli ultimi vent’anni è stato flagellato da numerose guerre inter-etniche ma soprattutto inter-religiose. Quando ci siamo trovati a dover pensare ad un luogo che ospitasse la preghiera, com’è consuetudine avvenga in qualunque luogo di cura, ci siamo dovuti confrontare con questo difficile dilemma: pensare uno spazio che potesse ospitare la complessità spirituale che alberga in questo paese. La scelta è stata quella di non privilegiare alcuna forma di culto ma di creare uno spazio capace di ospitare la preghiera e meditazione di tutte le fedi. Abbiamo dovuto, ovviamente, confrontarci con la religione mussulmana che è la fede professata dalla maggioranza dei Sudanesi e con le regole imposte da questo culto (le abluzioni, la separazione uomini donne) ma abbiamo calato queste regole in un contesto neutro che non le rendesse dominanti. La cosa è stata possibile occultando tutti i simboli e gli elementi religiosi che potessero essere ricondotti ad un’unica religione.

Uff...
Così tante possibilità di incontrarsi e così poche architetture in cui farlo!