domenica 18 luglio 2010

zizì ovvero la scimmietta più intelligente del mondo

Questa è la storia di una piccola scimmietta nata nel 1952 la cui intelligenza ha fin da subito sfidato il mondo intero e che ancora oggi, alla veneranda età di 57 anni, è l’emblema della conoscenza contro la bestialità. Zizì ha una certa età ma i suoi antagonisti possono vantare origini che si perdono nella notte dei tempi…

Se si sfoglia un manuale di storia della sociologia prima o poi si incontrerà un capitolo dedicato ad alcune tribù native del Nord America (sulla costa pacifica del Canada e degli USA) fra cui ce n’è una dal nome lungo e inquietante: Kwakwaka'wakw (non sto scherzando: si scrive proprio così!).
Questi signori hanno suscitato l’interesse del mondo dal momento che, per alcuni secoli e fino alla metà del secolo scorso, hanno portato avanti la tradizione del potlatch. Questo è una pratica con la quale si distruggono le proprie ricchezze davanti agli altri membri del gruppo sociale per dimostrare la propria importanza: regali smisurati, feste immotivate, ornamenti esagerati. Se mi legge un antropologo avrà un attacco di orticaria perché ho ridotto al minimo un evento sociale molto più complesso, però la cosa più curiosa di questa storia è che dalla fine del XIX secolo, su pressione di missionari ed istituzioni anglosassoni, questa pratica è stata dichiarata illegale.
L’etica rigorosa dei nipoti dei pionieri della frontiera americana non poteva sopportare la vista di fortune dilapidate in una giornata di bagordi solo per il gusto di apparire.

I pronipoti di quei pionieri hanno cambiato idea.

Il network televisivo che sta influenzando più di tutti il nostro futuro (sotto lo sguardo indifferente di coloro che si accapigliano per il controllo di tv e giornali che chi ha meno di vent’anni ignora completamente) è MTV. Lì viene periodicamente trasmessa una serie dal titolo fabulous life dove si mostrano le case, le automobili, le vacanze ed una vasta casistica di mattane degli eroi dello sport, del cinema e della musica venerati da tutti i teen-agers.
Un rapper inquietante che dopo aver descritto nei minimi dettagli le sue ferrari, lamborghini e mustang manda affan ..bip la sua insegnante delle medie che gli aveva detto che non avrebbe mai combinato niente nella vita.
Potlatch!
Il giocatore di basket che mostra il suo letto circolare che sta sul libro dei Guinness per le dimensioni, con le sue iniziali ricamate sulle lenzuola fatte su misura.
Ancora potlatch!
La mia favorita è la ventenne ereditiera russa, non particolarmente avvenente ma che si rende interessante vivendo in un appartamento da 15 milioni di dollari a New York e stipendiando una personal shopper che le procura 1 million dollar di abiti all’anno.
Super potlatch!
Ho anche sentito precisare che non basta essere super ricchi per diventare interessanti per la trasmissione. Infatti il signor Ingvar Feodor Kamprad, che va al lavoro in bicicletta e sprona i suoi dipendenti a riciclare i fogli di carta usati solo da un lato, non può essere considerato uno che si gode la vita nonostante sia recentemente diventato l’uomo più ricco della terra con i circa 50 miliardi di dollari che gli ha fruttato essere fondatore dell’Ikea.

L’immaginario collettivo si è costruito un’opinione del design che è molto simile all’idea di potlatch: oggetti costosi, o comunque più cari del dovuto, che servono a rafforzare l’identità di un individuo: una profusione di denaro che non va a ripagare il valore dell’oggetto acquistato ma a dimostrare la posizione sociale (che il più delle volte coincide con il potere d’acquisto) di un individuo. D’altronde la pubblicità è in grado di produrre guadagni molto più facilmente che non la ricerca industriale e quindi la spinta ad identificare gli oggetti di design con un modo di vivere elitario ed individualista è molto grande fino al punto di perdere il contatto con la realtà della destinazione e del valore dell’oggetto stesso; un esempio evidente viene dal fatto che molto spesso le confezioni degli oggetti costano più dell’oggetto stesso (sia che si tratti di profumi o di cavolfiori).
Anche in questi ultimi anni in cui, per fortuna, la grande distribuzione ha permesso la nascita di un mercato di oggetti di buona qualità a prezzi accessibili e si parla di design democratico, rimane la sensazione più che fondata che gli acquisti siano comunque dettati dall’impulsività più che dai bisogni. Quasi sempre il marketing ha lo scopo di legare l’acquirente ad un marchio invece che ad un prodotto, rendendo molto comodo l’abuso di potere da parte di chi ha pochi scrupoli. D’altronde si parla molto spesso dei danni causati al mercato dalle falsificazioni, ma non si sottolinea che molto spesso i luoghi di produzione ed i materiali sono gli stessi degli originali e quindi l’incremento del prezzo di 10, 50 o 100 volte è (im)motivato solo dal prestigio acquisito dalla firma aziendale (sul tema consultare una lettura che ormai è diventata un classico dell’eversione al consumismo: no logo di Naomi Klein del 2000, in cui si smascheravano le diaboliche strategie commerciali delle maggiori multinazionali)

La mostra ADI DESIGN INDEX. LE ECCELLENZE DEL DESIGN PIEMONTESE che sarà allestita all’Arca di Vercelli dal 4 al 18 giugno sarà un mattoncino per capire come cercare la qualità del design, o meglio, per sottolineare che alcuni oggetti di design non hanno l’originalità a tutti i costi e lo spreco di denaro come unico scopo della loro esistenza.
L’ADI (Associazione Per Il Disegno Industriale), la cui storia, possiamo dire, coincide con quella del design italiano, seleziona periodicamente i prodotti che ritiene rappresentativi della ricerca formale e tecnologica inserendoli nell’ADI DESIGN INDEX e poi, scegliendo fra questi, premia con l’ambito compasso d’oro l’eccellenza assoluta. L’esposizione racconta questa storia che ha contribuito in modo determinante alla conoscenza del design italiano nel mondo.
Questa variegata collezione di oggetti dovrebbe servire anche per comprendere un concetto non sufficientemente diffuso: che tutti gli oggetti di uso comune hanno alle spalle un progettista e un lavoro estremamente complesso, che vede nello studio della forma solo uno dei componenti. Molti pensano che solo gli oggetti preziosi e di lusso o quelli particolarmente originali e strani abbiano l’onore di avere un progettista alle spalle; invece lo spiritello ribelle di Bruno Munari che si poggia sulla nostre coscienze ci ricorda che: “il lusso non è un problema di design” (vedi NN di febbraio 2009) e che è vero proprio il contrario: ogni pinza da vetrinista, ogni sedia a sdraio da spiaggia, ogni sacchetto di plastica per la spesa e ogni lampada da officina meritano un compasso d’oro a ignoti. (Bruno Munari, Da cosa nasce cosa, 1989)
L’ADI è stata istituita proprio per fare in modo che ad ogni oggetto ben progettato venisse collegato il nome e il volto di un bravo designer e che questo diventasse garanzia di intelligenza progettuale.
Si è trattato ovviamente fin dal 1954, anno in cui è stato istituito il premio, di un’operazione commerciale: le aziende che riescono ad assicurarsi i progettisti più abili possono avvalersi di una notorietà supplementare. Ma allo stesso tempo, si tratta anche della divulgazione di una cultura formale che altrimenti, rimarrebbe un’esclusiva degli addetti ai lavori dal momento che il grande pubblico viene informato esclusivamente sugli aspetti vendibili del disegno industriale. L’ADI ci ricorda il valore dell’oggetto in sé; non il surplus offerto dalla vista di natiche sode o tramonti sconfinati o androidi mutanti che ballano la breakdance. E la parte più divertente per un profano può proprio essere quella di indagare perché siano stati selezionati alcuni oggetti piuttosto che altri, avendo ben chiaro in testa che una serie di posate non è stata selezionata solamente perché più bella.
L’estetica a volte può cedere le armi di fronte all’intelligenza e anche un piccolo giocattolo, tutto nero, che non è altro che un pochetto di gommapiuma intorno a del filo di rame può vincere la sua battaglia: non è vero zizì?

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