giovedì 20 agosto 2015

consapevole di sé

C'è una scena nel film Transcendence (2014), in cui Morgan Freeman pone una questione fondamentale ad una macchina, che non è altro che l'intelligenza artificiale migrata dal defunto Johnny Depp:
- "Puoi provare di essere consapevole di te stesso?" (can you prove you're self aware?)

Johnny dallo schermo ad alta definizione sogghigna e risponde:
- "E' una domanda difficile. Tu puoi provare di esserlo?..."




Per un'intelligenza artificiale questo è un problema ineludibile; è la soglia prima della quale ci si trova davanti ad un computer e oltre la quale si apre uno scenario che la fantascienza sta provando a delineare da alcuni decenni.
Ma per un'intelligenza naturale, per un essere umano, è così diverso? La consapevolezza di noi stessi e di quello che ci circonda è un'operazione scontata?
Anche questo non è un tema nuovo per letteratura e cinema che da 
Frankenstein a Blade Runner ci stanno chiedendo se il modo di vivere di alcuni esseri umani non sia ancora meno evoluto di un rudimentale esperimento di individuo artificiale.

Il mio lavoro mi porta a riflettere su come configurare lo spazio e quindi come deformazione professionale continuo a guardarmi intorno per capire come gli individui ed i gruppi di persone occupano e si muovono nello spazio.

Mi sembra di aver capito che questo movimento avviene secondo due modalità:

1. 
Quando le persone si muovono o sostano senza pensare a quello che stanno facendo, si comportano come animali, usano l'istinto e alla fine prediligono sempre comportamenti che garantiscono la sicurezza e l'auto-conservazione. Sono sempre meravigliosamente affascinato da come nei luoghi affollati le persone tendano naturalmente ad occupare i corridoi, le strettoie e comunque quelle zone di spazio che impediscono il passaggio e permettono di "controllare il territorio": le soglie delle porte ed i luoghi rialzati divengono rapidamente aree da presidiare benché questo causi un evidente intralcio al movimento degli altri. La lotta per la sopravvivenza è sempre in corso ed il branco deve essere tenuto sotto controllo!
A questo proposito mi piace sempre raccontare agli studenti come Craig Dykersdello studio Snøhetta, spiega il progetto di pedonalizzazione per Times Square a New York il cui intento è proprio quello di evitare che le persone sostino nelle zone in cui possono intralciare il passaggio.
“But I think consciousness is a small part of who we are. I have a friend who had a sheepdog, and he said whenever he had a party it would herd the guests. It would tap their ankles or their knees, until, by the end of the evening, everyone at the party was in one corner. The dog was happy, but the important thing was that nobody noticed. As architects, I think, we have to try to be like the sheepdog at the party.”


Esiste un modo istintivo di rilevare ed usare lo spazio che non viene da quello che sappiamo ma da quello che i nostri sensi percepiscono.


2. 
Quando le persone, che non fanno il mio mestiere, iniziano a pensare coscientemente allo spazio in cui vivono lo caricano di significati e di simbolismi per impossessarsene e trasformarlo in un tassello che definisce la loro identità.
Ovviamente anche questo aspetto è ineludibile, e, anzi, è l'essenza stessa del fare architettura: a partire dagli allineamenti di menhir, passando per la "pietrificazione" della capanna lignea che ha generato gli ordini architettonici classici, fino all'iper-tecnicismo dei grattacieli che sfidano le leggi della statica al servizio della corporate identity.





Il progetto architettonico ed urbano si deve occupare di entrambi gli aspetti.
Se però ci si convince che un edificio è fatto solamente della seconda parte, che possiamo chiamare culturale, inizia a formarsi uno scollamento fra il modo di pensare dei committenti e quello dei progettisti che si allarga fino ad indebolire pesantemente l'autorità professionale di questi ultimi: il pensiero comune è che gli architetti si occupino di cose sfuggenti e poco concrete di cui si può tranquillamente fare a meno.
Questo pensiero è poi supportato dalla pletora di tecnici che lavorano intorno al progetto, e che per statuto professionale non si devono occupare della configurazione dello spazio e ne ignorano l'importanza o addirittura l'esistenza.
La conseguenza di ciò sono le case in cui tutte le funzioni sono perfettamente incastrate ma in cui la tristezza regna incontrastata; sono gli uffici in cui i cablaggi sanciscono la posizione delle scrivanie (e non viceversa); sono le cucine in cui il progetto si fonda sulla dimensione (smodata) del frigorifero; sono le piazze che si disegnano intorno al passaggio giornaliero dell'automobile del sindaco...

La gerarchia dei valori non contempla più le soluzioni spaziali elementari che ci fanno riconoscere come capolavori alcuni edifici del passato e che sono proprio le cose sfuggenti a cui pensiamo noi progettisti: l'ordine, il controllo della luce, la scoperta nei percorsi, l'apertura di viste privilegiate e la gestione delle emozioni. Uno spazio che produce emozioni è architettonico.
Al momento è drammaticamente difficile far passare questi concetti al grande pubblico e per tutti il bravo progettista è sempre solo quello che fa si che i battiscopa non si stacchino dopo 6 mesi. La cultura ingegneristica ha preso il sopravvento ed è diventato complicato anche solo comunicare il malessere che una scorretta configurazione spaziale può provocare.

In questi giorni Google ha messo in commercio un tablet che percepisce lo spazio: è in grado di capire e memorizzare le dimensioni della stanza in cui si trova con la possibilità di visualizzzare al suo interno dei nuovi oggetti tramite la realtà aumentata. Si chiama ProjectTango ed è stato sviluppato principalmente come sistema di controllo per robot e per il gaming; nei prossimi mesi sono previsti sviluppi che possono diventare rivoluzionari per chi progetta lo spazio.



Abbiamo macchine che sono consapevoli dello spazio in cui si trovano.

Si può dire altrettanto degli esseri umani?

venerdì 7 agosto 2015

a proposito di un edificio tutto bianco costruito accanto ad uno vecchio e pieno di macchie

Non saprei dire in che momento preciso del recente passato tutti gli Italiani abbiano deciso improvvisamente di preferire le cose vecchie alle cose nuove, però posso facilmente provare che non è sempre stato così.
Un centinaio di anni fa i Futuristi andavano in giro urlando di lasciare spazio al nuovo che avanzava e invocavano la guerra perché spazzasse via tutte le vecchie cose e le vecchie idee. Tra gli anni '30 e gli anni '50 si sono succeduti 2 o 3 stili architettonici uno più rivoluzionario dell'altro e nel secondo dopoguerra si è inventato il design industriale che nel resto del mondo stanno ancora cercando adesso di capire bene cos'è. Poi durante il boom economico degli anni '60 non ne parliamo nemmeno: costruire, produrre, fabbricare, inventare erano le sole parole che si sentivano in giro. Poi c'è stato un periodo abbastanza lungo di grande produzione ma di poca inventiva.

e poi...

il Nulla.

Come alla pressione di un interruttore 

                                                CLIC

tutti gli Italiani hanno iniziato a volere i coppi sul tetto a falde.
Anzi meglio:
hanno scelto di desiderare una casa antica;
hanno deciso che il progresso è brutto e disdicevole.

Magari va bene usare la tecnologia  per qualche grattacielo di uffici in cui lavora qualche poveretto..., ma chi ha la possibilità economica di scegliere evita le case costruite dopo il 1950. 
Mentre i cattivi dei primi film di 007 dimostravano la loro sconfinata ricchezza con case futuristiche e tecnologie improbabili, dagli anni '80 in poi hanno iniziato ad abitare castelli antichi e ruderi semiabbandonati. Il potere oggi si dimostra ostentando cimeli (vd. Bill Gates che a metà degli anni '90 compra il codice Leicester di Leonardo da Vinci).

Uno che conosco dice che in epoche di ottimismo si guarda al futuro con grande aspettativa e di conseguenza tutti desiderano le novità perché non possono che portare vantaggi. Invece  in periodo di crisi si preferiscono le cose del passato perché si ha paura di quello che ci riserva il futuro.

L'immagine che ho messo all'inizio di questo breve testo ha da qualche giorno invaso tutti i siti che parlano di architettura in Italia e si sta diffondendo anche nel resto del pianeta. 
Si tratta dell'ampliamento di un albergo di Venezia che affaccia su Canal Grande e su Piazzale Roma.

Da un certo punto di vista è molto positivo che se ne parli con toni così squillanti e qualunquistici perché si crea un'occasione per discutere del rapporto fra vecchio e nuovo in architettura, ed in senso più allargato, nelle cose della vita.

Io sono favorevole ad un progetto di rinnovamento delle forme, delle tecniche e del pensiero. Solo attraverso il lavoro che riflette su cose che non ci sono ancora possiamo arrivare ad un miglioramento negli individui e nell'ambiente in cui viviamo. Quando tutta una nazione si preoccupa solamente di conservare quello che c'è da quello che potrebbe venire mi impensierisco.

Non conosco nei dettagli il progetto dell'albergo veneziano ma mi immagino che sarà stato un lungo calvario di pareri, modifiche, varianti, fallimenti e ripartenze. Lo so perché TUTTI i progetti di architettura in Italia devono passare da questa triste e mortificante trafila che difficilmente permette ad un'idea progettuale di essere ancora visibile al completamento dell'edificio.

Alcuni di coloro che si sono occupati di questo nuovo edifico nei giorni scorsi, lo hanno fatto per evidenziare alcune possibili irregolarità che ci sono state nelle fasi di approvazione, ma comunque non si sono tirati indietro nel sottolineare il loro sdegno davanti all'estetica del prodotto finito.

In questi giorni si sta anche molto parlando di grandi novità che saranno introdotte dal governo per le mansioni dei Soprintendenti, e, guardacaso, è proprio una soprintendente al centro delle polemiche sull'albergo veneziano.

L'opinione che mi sono costruito negli anni di esperienza lavorativa - e anche di ricerca sulla specifica materia del controllo normativo nei secoli passati - è che l'unico modo sicuro per avere delle belle città, delle belle case ed un bel paesaggio è quello di formare dei bravi progettisti. Non c'è norma, vincolo o soprintendente che abbia il potere di fare bello un progetto brutto.

In Italia ci sono molti bravi architetti. Però sono invisibili in una sconfinata massa di professionisti mediocri che il più delle volte hanno qualità per emergere più efficaci della competenza.

Io non so se la soprintendente veneziana ha seguito delle procedure poco limpide, ma di certo ha fatto quello che il suo lavoro le richiede: si è presa la responsabilità di una scelta estetica. La stessa cosa hanno fatto i progettisti e con loro il proprietario dell'albergo.
Probabilmente quel piccolo edificio non cambierà l'immagine di Venezia né nel bene né nel male, ma sicuramente diventerà un raro esempio di edificio costruito in un'epoca in cui gli Italiani vorrebbero solo stare fermi a guardare quello che altri hanno fatto prima di loro.