tornare a terra è la cosa più difficile.”
learning to fly, Tom Petty & the heartbreakers
Se noi decidessimo di fare dei sacrifici economici ed acquistare una delle poche e costose automobili elettriche che si trovano in vendita oggi, spinti da un irrefrenabile istinto ecologista, potremmo poi rimanere piuttosto delusi dallo studio recentemente pubblicato dall'EMPA (il Centro Ricerche sulla Scienza dei Materiali e lo Sviluppo Tecnologico del Politecnico di Zurigo).
Qui scopriremmo che, benché l'impatto ambientale della produzione e smaltimento delle batterie per l'accumulo di elettricità del nostro nuovo gioiellino sia assai più basso di quanto si pensava, in realtà potremmo, alla fine produrre più anidride carbonica e sostanze dannose di un normale motore diesel che ci sarebbe costato la metà!!
L'inghippo è semplice: noi non abbiamo il controllo sulla produzione dell'energia che consumiamo, che per la stragrande maggioranza è derivata dal petrolio. Quindi se l'elettricità che muove la nostra luccicante vetturetta arriva, invece che da una centrale idroelettrica, da una centrale a carbone o da una centrale nucleare di vecchia generazione (e con vecchia intendo anche quelle che si pensa di costruire in Italia nei prossimi anni) avremo, rispettivamente, un poderoso rilascio immediato di sostanze inquinanti o scorie radioattive da nascondere sotto il tappeto per alcuni secoli...
Certamente le cosiddette fonti alternative (eolico, solare, geotermico) non sono al momento in grado di soddisfare la domanda energetica, però questo non toglie che continuare ad investire in tecnologie che, non solo non hanno un futuro, ma perpetuano una condizione dannosa per gli esseri umani è quantomeno poco lungimirante (stupido?). anche se, in effetti, molto remunerativo per pochi....
I media collegano l'inquinamento da petrolio con il maggiore o minore uso delle automobili o con la scelta del combustibile per il riscaldamento della propria casa.
In realtà si consuma troppo petrolio quando si decide di usare un aereo invece che un treno, e questo è abbastanza evidente (per portare un singolo passeggero da milano a New York vengono prodotte circa 4 tonnellate di CO2 che è, più o meno, quello che emette la mia automobile in un anno); quando si lascia aperto il rubinetto dell'acqua mentre ci si lavano i denti (circa 30 litri che se ne vanno insieme a tutta l'energia che è servita ad estrarli, pomparli fino al lavandino e che servirà per smaltirli o, nel migliore dei casi, a depurarli); quando si compra l'insalata che è stata trasportata con un autocarro da 1000 km di distanza invece di comprarla dal proprio vicino; quando si compra la bresaola della valtellina o il culatello di zibello nella comoda vaschetta di plastica che è fatta con il petrolio; ecc.
Guardandosi in giro si riescono ad individuare due tecniche per riprendere il controllo sulla produzione dell'energia di cui abbiamo bisogno ogni giorno: le chiamerò hacking e diaspora.
Se cerco la traduzione di hacking, il termine che mi piace di più è intaccare, e per illustrarlo non trovo niente di meglio di un taglio di Lucio Fontana. Se si va a vedere il programma del meeting meno omologato di tutti che si è svolto a Roma nello scorso luglio, l'hackIT, si capisce che non è al solo mondo di internet e dell'elettronica che si dedicano gli hacker: i seminari vanno da “autocostruzione di pale eoliche” a “orti in città” passando per la crittografia quantistica (?!?)... La tecnica non è quella di arrestare lo sviluppo tecnologico (“... perché semplicemente non si può”) ma di intaccare il guscio che ci esilia dalle cose del mondo per renderci tutti attori consapevoli della sua evoluzione.
Diaspora ha un senso molto meno biblico di quanto sembri e indica un sito internet che, nato da pochi giorni, intende raccogliere tutti quelli che si sono resi conto del grande inganno operato dai gestori della più grande comunità di amici al mondo, facebook, che ha cambiato unilateralmente le regole sulla privacy, rendendo irreversibile, e più difficile da controllare, tutto il processo di donazione volontaria di preziosi dati personali che ogni generoso iscritto fa ogni giorno. In questo caso la tecnica consiste nell'autoesiliarsi da una condizione divenuta insostenibile e lasciare che la massa continui per la sua strada.
Entrambi questi atteggiamenti, evidentemente contraddittori, sono racchiusi in un movimento che, partito dal Regno Unito e oramai diffuso (troppo poco) in tutto il mondo, assorbe come una spugna ogni possibile soluzione per traghettare la società fuori dalla dipendenza dal petrolio.
Si chiama transition e sta diventando il punto di riferimento a scala globale per le piccole comunità (piccoli e medi comuni, o comunità di quartiere in città più grandi) che intendono progressivamente scollegarsi da un sistema energetico (e morale) che non consente il dialogo ed il miglioramento attraverso il confronto.
Le iniziative di transizione si distribuiscono fra l'hacking e la diaspora e vanno dalla creazione di orti e mercati comunitari, alla condivisione dei mezzi di trasporto, ai corsi di riparazione per allungare la vita degli oggetti (accompagnati dalla promozione dell'acquisto all'ingrosso di oggetti progettati per durare a lungo), fino alla creazione di una vera e propria economia locale parallela che si emancipa da quella fittizia e speculativa delle borse globali (illuminante la formula degli šcec per favorire i produttori e commercianti locali nei confronti della grande distribuzione).
Le città di transizione italiane sono ormai una quindicina (compresa L'Aquila per motivi evidenti) ma l'aspetto più importante è il consolidamento della rete informativa che le unisce a quelle del resto del mondo (compreso Giappone, Nuova Zelanda e Sudafrica).
PS: lo so che non si può andare a New York in treno...
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per ora.